Quando, nel 1961, Hannah Arendt seguì a Gerusalemme, per il New Yorker, il processo Eichmann, la sua visione del male che aveva attraversato l'Europa nella veste spietata dei totalitarismi assassini, un male che lei chiamava "radicale" perché aveva reso superflua l'umanità stessa degli esseri umani, cambia. E mette invece in evidenza la "banalità" del male: si possono fare le cose peggiori ai nostri simili ' torturarli, ucciderli, sterminarli ' semplicemente avendo accondiscendenza verso il potere, obbedendo agli ordini, eseguendo "il proprio dovere". Su questi temi, sulla polemica che ne seguì, sulle articolazioni politiche di questi pensieri, insieme a Simona Forti, interprete appassionata del pensiero di Hannah Arendt, interviene anche Salvatore Natoli: il bene è, kantianamente, la "legge morale dentro di noi".